Lo scrittore, poeta, accademico e intellettuale Tommaso Ottonieri si racconta in esclusiva ad Abruzzo Speciale
ROMA – Terra di natura e di misteri, quest’anno sono emerse dall’Abruzzo, o meglio, dalle penne eccellenti di uomini e donne che hanno vissuto il territorio, narrative in grado di appassionare milioni di lettori e stupire le giurie di uno dei più prestigiosi riconoscimenti riservati in Italia al mondo della letteratura, ovvero il Premio Strega Poesia.
Della rosa dei dodici finalisti presentati lo scorso mese al MAXXI L’Aquila, ha fatto parte anche il poeta, scrittore e intellettuale Tommaso Pomilio, in arte Tommaso Ottonieri, con Cinema di sortilegi (La Vita Felice, 2024). Sebbene sia cresciuto nel fermento politico e culturale della Napoli degli anni Settanta e ad oggi sia professore di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma, Ottonieri/Pomilio è originario di Avezzano.
Di come il complesso e profondo rapporto con la città marsicana in generale e ancor di più con la piana del Fucino sia stato sorgente d’ispirazione per le sue opere, in particolare ne Le strade che portano al Fucino (Lettere, 2007), Ottonieri lo racconta in esclusiva ad Abruzzo Speciale.
Dall’entroterra alla costa, la famiglia dello scrittore rivela un’intelaiatura in grado di racchiudere tutti gli angoli dell’Abruzzo. Dice ad Abruzzo Speciale Ottonieri: “La mia famiglia materna era composta da mio nonno, che era un importante anarchico abruzzese, attivista internazionale, Caiola, al quale è stata anche intitolata una piazza. Lui era originario di Celano, o meglio della piccola frazione di Paterno, adesso passata ad Avezzano, mentre mia nonna materna era originaria di Rocca di Mezzo. Invece mio padre aveva la mamma di Magliano dei Marsi e il padre della provincia di Chieti, di Archi. Infatti mio padre è nato a Orsogna, vicino al mare, intorno al 1926”.
Figlio del pluripremiato scrittore Mario Pomilio, Tommaso prende il cognome letterario “Ottonieri” quando esordisce nel mondo della scrittura. “Mio padre ha scritto moltissime opere e vinto numerosi premi, tra cui il Premio Strega [1983, n.d.r.] e il Premio Campiello [1965, n.d.r.], è anche per questo che quando ho cominciato a scrivere ho preso un altro nome”, rivela ad Abruzzo Speciale il poeta.
Quando gli chiediamo del suo legame con Avezzano, Ottonieri spiega: “È un rapporto molto particolare e complesso. È evidenziato questo aspetto ne Le strade che portano al Fucino, e anche nel risvolto, in cui dico alcune cose in relazione alla dimensione dell’origine. È un’origine che mi appartiene, ma allo stesso tempo ha qualcosa di alieno, nel senso fantascientifico del termine, perché è un territorio molto particolare. Nei primi anni della mia vita l’ho frequentato Avezzano molto spesso, e tutto sommato era anche un momento per me di libertà. Era un piccolo centro, non era come stare in una grande città… Da bambino potevo muovermi più liberamente. Al di là di Avezzano, dove ovviamente avevo famiglia, cugini, i nonni, motivo per cui ho passato lì grandi periodi, anche molto densi, della mia infanzia, quello che più mi è rimasto impresso è il territorio così strano, spaziale, lunare tutt’intorno… Poi magari adesso è più ‘addomesticato’, ma quando ero bambino era davvero selvaggio: questo territorio vasto in cui campeggiano questi ricevitori satellitari. Un territorio deserto e al tempo stesso fecondo, dove ci sono coltivazioni”.
Terra segnata dalle lotte contadine contro i Torlonia, il terremoto del 1915, la dittatura fascista e i bombardamenti degli alleati, quello della piana del Fucino è un territorio “piuttosto ricco dal punto di vista agricolo – continua ai nostri microfoni Tommaso – molto connotato anche dalle varie vicissitudini delle popolazioni che lo hanno abitato, dagli interessi dei Torlonia. È una terra che è nata dall’acqua, o meglio, dalla canalizzazione delle acque. Quindi il mito primigenio dell’acqua, che caratterizza la mia opera fin dagli esordi, e di un territorio segretamente gorgogliante, nella sua rete di canali, nasce in gran parte da lì. Infatti quando mi sono trovato a narrare questo luogo l’ho fatto in maniera molto peculiare e molto strana e straniante, con la fantascienza, con il fantastico, il comico, il teatro dell’assurdo, l’horror metafisico, persino le guide di viaggio, il tutto rifuso in un linguaggio e una sintassi letterariamente intensi e, mi pare, a tratti ipnotici. Ne Le strade che portano al Fucino ci sono dei pezzi che riprendo dalle streghe di Macbeth, Lovecraft, perché è un territorio ctonio, dominato anche da ombre importanti della storia”, dice lo scrittore.
E va indietro, fino al sangue che già in epoca romana macchiava la fecondità della piana. “Pensiamo alla naumachia – dice ad Abruzzo Speciale Ottonieri – ovvero il combattimento navale che si tenne in occasione del primo prosciugamento del Fucino, voluto da Claudio intorno al 52 d.C., durante la quale migliaia di schiavi furono costretti a combattere fino alla morte su queste zattere. E non potevano fuggire, perché appunto c’era chi li ributtava nella mischia. Narro dunque questo territorio, con tutte le sue ombre, ed è una strana origine”.
Un’origine che per Ottonieri/Pomilio “da un lato è aurea, come per molti versi sono auree molte cose dell’infanzia – racconta ai nostri microfoni l’autore – Posso ricordare la casa dei nonni, così fuori del tempo già allora, i sensi che venivano acuiti, specialmente d’estate, fra quelle mura e anche dall’odore inebriante dei tigli, che ad Avezzano è molto forte in alcune stagioni, o i giochi che si facevano e anche qualche primo invaghimento da ragazzino, molto platonico. Per altri aspetti, invece, rimane questo buco nero, denso ma risucchiante, che è la piana del Fucino, con i suoi appezzamenti regolari, dove l’umano c’è fin troppo, ma proprio per il suo esserci molto è come se non ci fosse affatto, come se scomparisse nel grasso della terra”.
Più che l’Avezzano e la piana del Fucino di oggi, ad ispirare il poeta è stato soprattutto il territorio dell’infanzia prima e della gioventù poi. “Quando ho scritto Le strade che portano al Fucino – ripercorre ad Abruzzo Speciale Ottonieri – ho agito molto in base all’impressione dell’infanzia. Mi ricordo quando andavo in bicicletta con i miei cugini, mi dicevano delle cose che non ho mai capito fino in fondo, come ad esempio di ‘accelerare perché c’erano gli zingari’…. Ed effettivamente a un certo punto c’erano dei capannelli con un po’ di personaggi che emergevano, e allora cominciavano a dire che gli zingari volevano rubarsi le biciclette… Che poi chissà se era vero! Però sembrava davvero di stare in un film, del genere di ‘Le colline hanno gli occhi’. Il tutto osservato dallo sguardo di un bambino, ancor più stralunato perché venuto da una città, come Napoli, che per peculiare che fosse, rimane pur sempre un ambiente urbano abbastanza diverso”.
E rivela ai nostri microfoni: “Attualmente quando torno ad Avezzano mi riviene sempre negli occhi questo retroterra perduto… I miei nonni, la loro casa e l’orto, nell’angolo tra via Cadorna e via Fratelli Rosselli, a cui, dopo un fisiologico passaggio di proprietà, non posso accedere se non con la memoria. L’ultima volta che ci sono entrato, poco prima della compravendita, era stata svuotata degli oggetti, ma era tutto ancora impresso sui muri, come un’ombra… Passo volentieri al bar dove mi nonno si fermava, che era il bar centrale, sulla piazza, vicino alla fontana… Però vado molto spesso nel bar che si trova nella piazzetta intitolata a mio padre, anche perché il caffè è molto buono. È caffè napoletano, come quelli che si possono bere a Napoli, il caffè Kenon, con tostatura a legna. In questo modo unisco il background napoletano con quello avezzanese, e vado a bere il caffè davanti al busto di mio padre, che non gli assomiglia molto, ma ci accontentiamo”.
L’Avezzano dei giorni nostri per Ottonieri ha subito dei cambiamenti radicali, soprattutto nell’urbanistica. “Una cosa che a un certo punto ho anche descritto – spiega ad Abruzzo Speciale lo scrittore – è che a partire dai primi anni Novanta è stato un susseguirsi di centri commerciali. Ho anche scritto un romanzo sui centri commerciali [Crema Acida (Lupetti&Manni, 1997), n.d.r.], immaginandolo in un altro tipo di territorio, ma in parte modellandolo sul Fucino e su Avezzano che si trasformavano, seppur con l’interferenza di quel territorio che io ricordavo come primitivo, barbarico, lunare, disabitato”.
Agli occhi del poeta “il centro storico di Avezzano ha acquistato in quegli anni un certo fascino – rivela ai nostri microfoni Ottonieri – Quando ero piccolo mi sembrava ordinario, un po’ depresso, invece con gli anni quelle architetture hanno acquisito un sapore d’epoca e vintage della prima metà del Novecento, guadagnando una qualità storica che prima non avevano. Quando penso ad Avezzano penso alla ricostruzione, al terremoto, ad un territorio che è stato distrutto due volte, prima dal sisma, poi dalla guerra. Anche questo elemento si trova ne Le strade che portano al Fucino. È un territorio che nasce dal nulla, dall’acqua, un territorio che nasce addirittura da uno dei posti più ambiti e frequentati dell’Ottocento, perché il Fucino era molto famoso e amato dai viaggiatori del Grand Tour. Un territorio di trasformazione e di sostituzione antropologica, se vogliamo, che però al tempo stesso è nativa”.
E ricorda la tragedia del terremoto che nel 1915 ha raso al suolo Avezzano, lasciando per sempre sotto le macerie migliaia di persone. “Se uno pensa a quello che è avvenuto agli inizi del Novecento – spiega ad Abruzzo Speciale Tommaso – quando nel giro di pochi minuti sono morte decine di migliaia di persone, e il territorio si è trasformato in una baraccopoli, tutto era da ricostruire”.
Il Fucino, come racconta Ottonieri/Pomilio, “è sempre stato un territorio molto importante sotto tanti punti di vista – dice ai nostri microfoni Ottonieri – mio padre ha scritto un reportage sulle lotte contadine del secondo dopoguerra, prima ancora mio nonno materno aveva capeggiato le lotte contadine contro i Torlonia. Gadda stesso, ad un certo punto, probabilmente si riferisce al Fucino quando parla del del mito della fecondità appenninica. In ‘Quer pasticciaccio brutto de via Merulana’ c’è Liliana Balducci che è infeconda e nutre questo mito di questo territorio fecondo che si trova nel cuore degli Appennini, in questa specie di conca, in cui pullulano una quantità inverosimile di uova fecondabili o già fecondate, come se la fecondità risiedesse in esse. Però le uova simboleggiano anche qualcosa di estremamente fragile. Come un territorio che sta lì, apparentemente immobile, ma potrebbe sgretolarsi. Ci si cammina sopra, ma con un certo timore”.