La decisione del reparto di Ginecologia dell’Ospedale San Salvatore dell’Aquila di sospendere da gennaio 2024 l’aborto farmacologico con il medicinale RU486 ha sollevato numerose polemiche, culminate ieri nella lettera alla Asl delle attiviste di Fuori Genere. Le ragioni del provvedimento non sono ideologiche, lo spiega ad Abruzzo Speciale il primario dell’Uoc di Ginecologia e Ostetricia del San Salvatore
L’AQUILA – La decisione del reparto di Ginecologia dell’Ospedale San Salvatore dell’Aquila di sospendere da gennaio 2024 il servizio di interruzione volontaria di gravidanza con il metodo farmacologico attraverso il medicinale RU486 ha sollevato non poche polemiche nel capoluogo abruzzese. L’ultimo grido di denuncia della frustrazione delle molte donne che da L’Aquila sono dovute arrivare ad Avezzano o Sulmona per accedere alla cosiddetta “pillola abortiva” è arrivato ieri dal collettivo aquilano Fuori Genere, in forma di lettera aperta ai vertici della Asl 1 L’Aquila – Avezzano – Sulmona.
“Chiediamo alla dirigenza Asl e a chi di competenza di fornire le motivazioni che hanno portato all’interruzione del servizio. Nella nostra città, inoltre, neanche i consultori (oltretutto pochi rispetto a quelli previsti dalla legge 405/75) garantiscono questa pratica medica”, si legge nella missiva delle attiviste. Dietro all’interruzione dell’aborto farmacologico a L’Aquila, tuttavia, non si nascondono ragioni politiche o filosofiche, piuttosto una carenza sostanziale di personale ospedaliero e fondi.
A raccontare ad Abruzzo Speciale le difficoltà della sanità pubblica dietro l’interdizione della RU486 è il professor Leonardo Di Stefano, ginecologo e primario dell’Uoc di Ginecologia e Ostetricia dell’Ospedale San Salvatore dell’Aquila.
“Sono quarant’anni che faccio il ginecologo qui a L’Aquila, ovviamente non sono contrario a questo servizio, ma non posso espletarlo in queste condizioni – confessa ad Abruzzo Speciale il primario – Non è una forma punitiva nei confronti della popolazione aquilana. Mi sono trovato nelle condizioni di dover sospendere l’erogazione della RU486 per il verificarsi di episodi inammissibili”.
Da marzo 2023, quando è stata introdotta la pratica dell’aborto farmacologico al San Salvatore, a gennaio 2024 l’intero reparto di Ginecologia si è trovato a far fronte a diverse emergenze dovute a reazioni collaterali da RU486, ma senza abbastanza personale medico pronto a intervenire.
“Trovare persone svenute per perdite di sangue in giro per l’ospedale, avere delle pazienti che fanno quattro accessi nel giro di sette giorni e spesso dover andare in sala operatoria per concludere il processo di interruzione di gravidanza in maniera chirurgica, qui non è sostenibile sotto nessun punto di vista”, racconta Di Stefano.
Sebbene l’aborto farmacologico sia spesso meno invasivo delle pratiche chirurgiche, in alcune pazienti presenta degli effetti collaterali considerevoli, tra cui emorragie severe fino al punto di dover ricorrere a trasfusioni di sangue. In alcuni casi, inoltre, il farmaco da solo non è sufficiente al completamento dell’interruzione di gravidanza, richiedendo in ogni caso l’intervento in sala operatoria. La somministrazione della RU486 necessita, dunque, di molto più personale e spazi rispetto a quelli attualmente in dotazione al San Salvatore.
“L’induzione farmacologica dell’aborto è un diritto, quando ci sono le condizioni per fornirlo. Abbiamo il diritto di avere il personale dedicato, eppure non ce lo abbiamo. Dobbiamo pensare al benessere delle pazienti prima di tutto”, sostiene il primario.
E aggiunge: “I problemi sono i costi e la mancanza di personale. Tutti vogliamo fare le cose fatte bene, quindi non possiamo permetterci di erogare questo servizio. Ci siamo trovati di fronte a situazioni del genere per cinque volte, senza avere la possibilità di risolvere il problema, quando invece dall’altro lato, con l’aborto chirurgico, la paziente fa un solo accesso, noi possiamo intervenire in maniera efficace e possiamo dimettere la paziente senza timori”.